INTRECCIARE ANCORA CANESTRI
Questa storia, come tante storie vere, non può essere raccontata se non partendo da un’immagine. Non è detto che sia l’unica possibile, ma certo è un’immagine in grado di covarne altre che a loro volta ne produrranno di nuove e così via fino a formare un discorso.
Ma un discorso fatto di immagini a cosa assomiglia? Assomiglia, meglio dirlo subito, ad una visione. In questo caso, l’immagine guida è un canestro, il recipiente che anticamente era fatto di canne e poi di vimini. kane-kanastron in greco che diventa, in latino, canna-canistrum. L’intrecciare come il gesto corrispondente di tessere avevano ed hanno un valore simbolico, abbracciano sia uno scopo pratico sia un significato allusivo. E la bellezza antica dei due procedimenti sta nel fatto di prendere dalla natura, trasformando la materia prima in qualcosa che non avrà più l’aspetto della canna o della lana pur conservandone la natura. Ecco, già sollevata una questione capitale: lasciare com’è per vedere come rimane. Esistono luoghi in cui la vecchia, vecchissima abitudine di fabbricare e utilizzare canestri fa sempre parte del paesaggio umano. Quell’oggetto è ancora uno strumento di lavoro e di umanità. Per ricordarmene, frugando tra i ricordi, è stato necessario incontrare Gianfranco Tuoro, cuoco per la prima parte della vita ed oggi olivicoltore, il cui tempo è equamente diviso tra l’ultimo lembo di Brianza, prossima al lago di Como, e la Sicilia.
Molto, se non tutto, della bontà del suo olio dipende dalla nocellara del Belice e dai canestri con cui è raccolta a mano. Che relazione c’è tra la notte e il canestro? Una seconda immagine che, oggi, dopo una lunga chiacchierata al telefono, si sovrappone alla prima, è la notte, non una notte bucolica o metropolitana, ma in viaggio. La notte bucata dai fari, dove la meta è veramente accarezzata come un porto; dove l’automobile circoscrive e scalda il desiderio di arrivare e la distanza appare al tempo stesso più familiare e paurosa che di giorno; dove, in fondo, vale la doppia vertigine della solitudine e del desiderio di annullarla il prima possibile. «Vivo e parto spesso di notte – mi dice – per raggiungere la cerchia di amici che mi sono stati vicini dopo l’incidente». Quanti viaggiano di notte per necessità, per lavoro e per nascondere i propri atti? Molti, pochi, però, quelli che lo fanno per onorare il senso della riconoscenza. Ri-conoscere è l’unica arma, insieme alla tenerezza, per sopravvivere al mercato della vita che dà e prende con imprevedibile lestezza. Ma quale sarebbe la relazione segreta tra il canestro e la notte? Sul piano etico, quello di appropriarsi di una parte del tempo, accettando in toto il dono dell’esistenza; sul piano estetico, strettamente collegato, c’è appunto la delicatezza di intrecciare pieno e vuoto, luce ed ombra. Un rudere che dà forma al tutto La terza immagine è una sorta di capolettera. Se mancasse il racconto giornaliero avrebbe un tono meno solenne. Non è il mare che si trova ad un chilometro dal podere di tre ettari, non sono i templi di Selinunte che quasi gli fanno ombra, ma un rudere agricolo. Sarà stata la luce di quella giornata, il profilo delle pietre sconnesse, quel po’ di pittoresco e quel tanto di malinconico che s’impossessa delle cose abbandonate, sta di fatto che se quel rudere di cent’anni non avesse aggiunto la propria forma alla forma del tutto, forse l’acquisto non sarebbe avvenuto.
Cogliere alive come perle
La quarta immagine ha il sapore della sfida e si ricollega alla prima, alla presenza del canestro. Bisogna resistere, averne la capacità, l’orgoglio, per uscire oggi di casa, tenendo sottobraccio un canestro, raggiungere il campo e iniziare a cogliere alive come fossero perle. Bisogna saperlo e volerlo fare, interiorizzando un’abitudine, non sentendosi né estraneo al passato né fuori posto rispetto al presente. Così era, così è, perché così è meglio. La cultura contemporanea della comodità, diretta conseguenza dell’idea che valga solo quello che porta un vantaggio immediato e personale, di solito, svillaneggia una simile disciplina. Chi rifiuta il canestro sta tagliando o ha già tagliato le proprie radici, vuole andarsene e il canestro da solo non può richiamarlo indietro. Il rovescio della medaglia ci mostra l’orgoglio sotto la luce incerta della pura e semplice ripetizione. L’unico modo di evitarlo è sostituire la sirena del vantaggio immediato con la possibilità di un risultato che duri nel tempo. Oltre la bellezza tragica del canestro.
Sapore e sapere
La quinta e ultima immagine che viene alla mente è legata alla parola sciavuru, sapore. Aver gusto che, poi, per comune radice, equivale ad aver senno: sapore e sapere sono facce della stessa medaglia. Trarre sapore è spremere il giusto sentire, la sapienza da qualcosa per qualcosa. Da noi per qualcuno, dalle olive di Selinunte a tutti. E mi piace meditare sul fatto che una volta riposte delicatamente nei canestri e da lì, delicatamente, in ceste che non superano i venticinque chili, le alive trovino come le idee lo spazio necessario per non farsi schiacciare, deturpando prima ancora di essere spremute la bellezza e la bontà dell’olio.
Nicola Dal Falco